14 gen 2010

L'abilità di definire i problemi.

In Italia quasi mai abbiamo l'abilità di chiamare i fenomeni per quelli che sono, cedendo a quella odiosa abitudine di voler edulcorare le cose quando sono gravi, o a volerle ingigantire quando in realtà la gravità è decisamente inferiore, e questo ancorché sia vero che la lingua italiana prevede diverse sfumature di significato: mi permetto di suggerire che accade ciò proprio per attribuire la parola più adatta alla relativa situazione.

Eppure sono convinto che qualificare i problemi con il loro nome, sarebbe già un passo in avanti per poterli risolvere, sapendo almeno di cosa parliamo e cosa dobbiamo affrontare. La questione è metodologica, prima che di merito. In particolar modo, oggi mi riferisco caso Balotelli. Occorre denominare (e denunciare) i fenomeni per quelli che sono: ancorché Balotelli sia strafottente - e non penso ci sia da poter smentire - dire che non esistono NEGRI italiani è razzismo. Parimenti la strafottenza che può manifestarsi con parole, fatti, opere e omissioni e che può essere solo sintomo di immaturità, non giustifica il razzismo che certo non è assimilabile ad ingenuità, ma semplicemente a qualcosa di schifoso che va sradicato in ogni modo.

Quello che sembra e che talvolta sembra sia più grave che Balotelli sia strafottente che parte degli italiani razzisti, mentre dovrebbe proprio valere il contrario. Balotelli non sarà nè il primo nè l'ultimo dei calciatori strafottenti, ed il consiglio di farsi ben volere e di crescere è qualcosa detto per il suo bene, non certo per il colore della pelle.

In tal senso sospendere le partite nel caso dei cori razzisti non è una situazione facilmente applicabile, e probabilmente non proficua: se fischiano Balotelli, o qualunque giocatore di colore, per le scarse prestazioni e non per il colore della pelle? Se gli indicano, gentilmente, il paese dove andarsene? Potrebbe essere razzismo, o semplici cori da stadio?

Pensando in modo più veniale, anche se nessuno lo dirà mai pubblicamente, il pragmatismo passerà sopra alle questioni di principio: esigenze economiche e di calendario (pensate a chi gioca le competizioni internazionali) lascerebbero pensare che difficilmente una o più partite potrebbero essere sospese e poi riprese in un secondo momento. Già il calendario così com'è diverse volte fa temere per lo stress e per gli infortuni dei giocatori, figurarsi se ci si può preoccupare del razzismo. Peggio giocare sempre a porte chiuse (i mancati incassi al botteghino dove li mettiamo?).

Domanda legittima: cosa fare? Principalmente che velocizzare il processo, che in Italia è in ritardo anni luce rispetto all'Inghilterra (ex) patria degli hooligans, di dare la proprietà degli stadi alle squadre di calcio. Questi avranno tutto l'interesse (per carità meramente economico) di selezionare le persone al suo interno. Se una frangia violenta della tifoseria mette a ferro e a fuoco lo stadio, le spese saranno a carico della società. Se passa l'idea che è pericoloso seguire in casa una certa squadra chi mai pagherà un biglietto? Mai investimento sarà più fruttuoso che investire in sicurezza.

Secondo aspetto: la prevenzione. I biglietti nominativi sono un passo in avanti, ma non bastano. Si dovrebbe creare, per esempio, una banca dati nazionale di tutti gli ultras violenti che si sono resi protagonisti di ogni sorta di violenza allo stadio. A questi durante le partite comminare loro l'obbligo di presenza nel commissariato di polizia di residenza; coinvolgere i tifosi nell'operazione di prevenzione, nello stilare le regole del gioco. L'unione fa la forza.

Detto per inciso: non confondiamo quelli che attaccano le forze dell'ordine, che cantano cori razzisti, quelli che compiono atti criminali in genere, non sono pseudo tifosi. Sono criminali che devono andare in galera.

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